Cerca nel blog

venerdì 19 novembre 2010

Dal Friuli agli States con la musica degli Arbe Garbe


UDINE - Pier Paolo Pasolini faceva del friulano un uso letterario. Gli Arbe Garbe lo utilizzano per scrivere musica popolare, “contaminando” il proprio suono con generi diversi e collaborazioni internazionali. Cantare in lingua madre non è una scelta - sì, il friulano è una lingua minoritaria e non un dialetto, riconosciuta dall'Unione Europea, proprio come il catalano e il basco in Spagna -, bensì significa aprire il cuore e far parlare la propria identità. A giugno è uscito il loro sesto disco “The great prova”, frutto della collaborazione con il famoso chitarrista statunitense Eugene Chadbourne, artista poliedrico che in carriera ha lavorato con John Zorn, Fred Frith, Derek Bailey e molti altri. A dispetto di quello che si può credere, la musica degli Arbe Garbe non è di nicchia. Il quintetto ha all'attivo circa 400 concerti tra Italia, Germania, Austria, Svizzera, Slovenia, Croazia, Spagna, Svezia, Serbia, Argentina e Uruguay. Inoltre è stato ospite di trasmissioni radiofoniche nazionali, come “Caterpillar” e “Fuori giri”, e programmi televisivi, quali “Follie rotolanti”, “No Roads” e “La Storia siamo noi”. Il gruppo è composto da Federico Galvani (fisarmonica e voce), Roberto Fabrizio (chitarra), Marco Bianchini (batteria), Flavio Zanuttini (tromba) e Giacomo Zanuttini (tuba). 
Partiamo dal nome, Arbe Garbe, in italiano “erba cattiva”. C’è qualche attinenza con l’erba che si fuma?
«Ah, malpensante! In realtà Arbe Garbe è un nome inventato che per noi rappresenta le erbacce infestanti delle monoculture. Non puoi estirparle rimangono a rappresentare la forza delle biodiversità. Il nome parte dal concetto di agro, aspro, acerbo, mescolato all’erba, che di per sé è la cosa più diversa e simile che si conosca, che come noto, per ignoranza mettiamo tutta nello stesso fascio. Ci piace la diversità ed abbiamo un atteggiamento libertario su molti temi, ma in tempi questi, dove il diavolo ha più accessori che anime, come diciamo in una canzone, preferiamo legarci alle radici delle erbe selvatiche, che danno prospettive più solide, verrebbe da dire “meno fumose” di altre».
La vostra musica è una contaminazione di generi, lingue e tradizioni, ulteriormente arricchita da collaborazioni internazionali. Come si fa a costruire un progetto “organico”?
«Suonare assieme non basta! Pensare, riflettere,discutere sono per noi elementi essenziali per costruire un futuro. Un progetto si costruisce “sapendo chi sei e dove vai”. Le varie contaminazioni non sono capitate tutte per caso. Le abbiamo desiderate, cercate, costruite. Ci siamo abbandonati a varie influenze culturali sempre tenendo d’occhio il percorso che ci eravamo prefissi. Abbiamo rischiato la deriva, forse anche il naufragio, per esempio in Argentina, dove abbiamo suonato con un forte shock culturale positivo. Per fortuna qualcuno di noi, a turno, ha avuto sempre l’accortezza di farsi legare all’albero maestro per non cedere al richiamo delle sirene del mare».
Proponete musica folk, popolare. Di cosa parlano i vostri testi?
«Riprendiamo il senso della musica popolare, che canta della vita e del proprio mondo. Alcuni testi sono tradizionali, ma per la maggior parte usiamo la nostra prospettiva, che è particolarmente scentrata. Veniamo dal confine nord orientale dell’Italia e siamo abituati a guardare il mondo in modo sbilenco. Ci piacciono le storie di margine, saporite, quelle che leggi tra le righe della storia. L’ispirazione la troviamo in quello che ci accade attorno e che cantiamo».
Cosa significa “agropunk”?
«“Agropunk” è il termine che meglio riassume non solo la nostra musica, ma anche l'attitudine e il contesto. Da quindici anni facciamo prove in un'azienda agricola che produce il vino biodinamico più buono del mondo (Az. Agr. Vignai da Duline), la nostra realtà musicale è costantemente influenzata dalla realtà agricola di Lorenzo il titolare dell'azienda nonché primo bassista cofondatore del gruppo. Nel suo caso si può dire che applichi l'irruenza e la sincerità punk all'agricoltura, mentre il nostro modo di fare punk è molto agreste: un agricoltore deve imparare a rispettare il terreno che coltiva e in maniera sinergica ricavarne i migliori frutti, per noi il nostro terreno è la tradizione musicale di questa zona e il punk è la coltura che ci stiamo coltivando».
Cantate prevalentemente in lingua friulana e in dialetto beneciano (minoranza slovena del Friuli orientale), ma anche in italiano, inglese e spagnolo. Come mai questa scelta?
«Non è tanto una scelta quanto la nostra storia. Le lingue che usiamo per i nostri testi sono lingue che abbiamo a cuore perché le abbiamo imparate attraverso le nostre esperienze di vita. Suonare in giro per il mondo è un'opportunità che ti permette di conoscere persone nuove con culture e tradizioni completamente diverse dalle tue, un arricchimento che non ti lascia mai indifferente. Crediamo in un concetto di identità aperta che viene costantemente arricchita dalle esperienze della vita, per noi queste lingue e certe sonorità che esulano dal contesto tradizionale friulano ormai ci appartengono, quanto “O ce biel cjscjel a Udin”».
In Italia e all’estero molti considerano il friulano un dialetto (nemmeno una lingua) di poco conto, legato al vissuto contadino e che si sta perdendo. Il friulano è ancora una lingua viva?
«Col nostro ultimo disco è successo qualcosa di simpatico che forse centra con questo. In precedenza la stampa storceva il naso per il fatto che usavamo lingue desuete, ma quando, in “The great prova”, le abbiamo mescolate all’americano, sono diventate immediatamente un valore aggiunto, potremmo definirle cool. Funny, isn’t it? In realtà la differenza tra lingua e dialetto è una questione controversa. Il friulano, come spesso le parlate minori, è proprio di una civiltà che aveva un profondo e complesso rapporto con la natura, ed un minor legame con la tecnologia. Queste parlate sono miniere di saperi coagulatisi nei millenni. Parole così dense e reali che sembrano fatte della materia delle cose che nominano. Difficile fare previsioni per il futuro, non è improbabile che queste parlate possano estinguersi, in particolare se non riusciranno a produrre nuove prospettive. Sarebbe un peccato, ma sicuramente di nuove ne nasceranno».
Avete mai toccato il tema dell’immigrazione, friulana e non?
«Ovviamente, ne siamo anche protagonisti. Il nostro legame con l'Argentina ha portato addirittura ad un matrimonio trans-oceanico per un componente del nostro gruppo. Quotidianamente veniamo a contatto con l'immigrazione e l'emigrazione, persone a noi molto care hanno fatto voli di quindici ore sola andata e parlare di questo tema come fosse una cosa appartenente al passato è bizzarro. Da quando esiste l'umanità l'uomo migra per mille motivi, a volte torna sui suoi passi. Un nostro brano parla proprio di questo, si intitola “Oh Moj Sin” e lo trovate nell'album “Iubilaeum”».
Pochi mesi fa è uscito il vostro sesto disco, “The great prova”. Come è nata la collaborazione con Eugene Chadbourne?
«Alcuni di noi avevano ascoltato qualche suo disco e quindi musicalmente un po’ lo conoscevamo e quando l’associazione culturale Hybrida gli ha organizzato un concerto in Friuli lo abbiamo contattato e gli abbiamo chiesto di passare una giornata con noi in sala prove. Ha accettato la proposta e abbiamo passato un’intera giornata suonando insieme. In quell’occasione abbiamo registrato Birthday, una cover dei Beatles, che successivamente Chadbourne ha voluto inserire nell’album “Roll over Berlosconi” uscito nel 2010 per la Interbang Records. Questo succedeva un anno e mezzo fa. Dopodiché, l’inverno scorso abbiamo ricontattato Chadbourne per vedere se era possibile fare dei concerti insieme, visto che tornava in Europa e che ci eravamo salutati con un “Maybe we can play a gig together”. E così abbiamo organizzato un mini tour da cui è nato “The Great Prova”. Il bello è che questa collaborazione non è finita qui e stiamo già pensando a qualche altra data per il prossimo anno».
In che modo avete fatto convergere la vostra “musica per ballare”, con quella “per pensare” del chitarrista statunitense?
«Diciamo che questa convergenza è nata in maniera spontanea probabilmente perché tra il nostro modo di intendere la musica e il suo ci sono più affinità di quanto possa sembrare. Mentre noi abbiamo cercato di prendere la musica popolare della nostra terra e contaminarla con le nostre influenze musicali, soprattutto con il punk, Chadbourne ha fatto sue le musiche popolari degli Stati Uniti, blues country western e le ha mescolate con il free jazz e l’improvvisazione radicale. In questo modo penso che entrambe le tradizioni musicali abbiano guadagnato vitalità. Unendo il tutto è nata la musica di “The Great Prova” in cui si può sentire punk, country, free jazz e folk in un unico disco».
A differenza della maggioranza delle band attuali e dai talent show televisivi, che ricercano la perfezione stilistica e sonora, voi avete optato per l’“imperfezione”. Perché?
«La dimensione live è quella che ci dà più emozione e ci coinvolge di più, sia musicalmente che mentalmente che fisicamente, e penso che questo si noti durante i nostri concerti. Come per il precedente album “Bek” anche il prossimo disco lo registreremo “live in studio” perché siamo convinti che ricreando quella dimensione riusciremo a rendere il nostro suono più potente e allo stesso tempo naturale. Se poi per perfezione stilistica intendi quei suoni patinati e puliti che vengono usati nel pop mainstream, allora evviva l’imperfezione».
A dispetto di quello che può sembrare, la vostra musica non è di nicchia. Avete alle spalle 400 concerti in giro per il mondo. Qual’è il vostro segreto?
«E’ la magia del punk e del folk. Sono musiche dirette e senza troppi fronzoli e arrivano dappertutto, come l’influenza».
Sareste perfetti a Toronto, una delle città più multiculturali del mondo. Avete mai pensato di esibirvi in Canada?
«Ne saremmo lieti. Sì ci piacerebbe mescolarci culturalmente col Canada, probabilmente anche a costo di discuterne con un grizzly».
A quali gruppi vi ispirate?
«All’inizio sicuramente i Pogues e i Clash hanno esercitato una forte influenza sulle sonorità del gruppo e anche i Whiskey Priests, gruppo semisconosciuto che si autoproduceva tutto, dai dischi alle tournee. In questo momento sicuramente quello con Chadbourne e la sua musica è stato un incontro fatale, che ci ha stregato e aiutato molto. Altri gruppi a cui siamo legati sono i The Ex (un gruppo olandese che fa punk noise e che in questo momento sta collaborando con un sacco di musicisti africani e con i migliori jazzisti d’avanguardia europei), NoMeansNo, Fugazi, Tiger Lillies, senza dimenticare le musiche popolari della terra in cui siamo cresciuti e del mondo».
All’attivo avete ospitate radiofoniche ed apparizioni televisive in Rai. Qual’è il prossimo passo?
«Detronizzare i mass media, demolendo e fondendo i nostri strumenti musicali, tramutando i nostri concerti in feste esplosive ma allo stesso tempo terapeutiche. Sperando che la gente si riappropri del modo giusto di far festa (magari per una sera dimenticandosi della televisione). Quegli “antichi sapori” che solo le feste paesane avevano. In realtà stiamo lavorando duramente al nostro disco nuovo, poi vedremo che canali promozionali si apriranno. Con l’ultimo siamo stati parecchio programmati nelle radio indipendenti italiane».
State partecipando a diversi progetti, anche al di fuori del mondo musicale. Ci spiegate cosa sono “Bande Garbe”, “Croz Sclizzâz” e “Trio Bestie, Snait!”?
«Quelli che citi sono alcuni dei progetti paralleli che abbiamo portato avanti nel tempo. Siamo sempre stati aperti a collaborazioni di qualsiasi tipo, cercando di resistere alla costruzione di un’identità precisa e riconoscibile. Quello dell’ego dell’artista nella nostra civiltà è un vecchio tema. Cerchiamo antidoti per non diventare troppo uguali a noi stessi per evitare di rimbambirci. Allora collaboriamo con altre realtà. La “Bande Garbe” è una brass band situazionista, che si esibisce quando e per chi ci vuole, in cambio di una birra e un panino. I “Croz Sclizzâz” sono il nostro primo progetto con un cantautore, nel caso Fabian Riz, un bluesman dei nostri colli. Il “Trio Bestie” era una nostra versione da strada da cui è nato un altro progetto di musica balcanica che ora segue un nostro ex componente. “Snait” è invece un progetto di cooperazione decentrata con un quartiere di Buenos Aires. Si tratta solo di alcuni dei ponti che abbiamo costruito negli anni. Abbiamo collaborato con moltissime realtà, musicasi ma anche teatro e poesia. Ci piace collaborare per crescere».
Cosa avete in cantiere per il futuro?
«Stiamo lavorando su un nuovo disco che uscirà nei primi mesi del 2011. É un album di soli pezzi inediti scritti da noi, è dal 2004 che non produciamo un lavoro simile. Da quell'anno ci sono stati molti cambiamenti e sono successe molte cose che spesso non hanno reso possibile l'uscita di lavori inediti. Da meno di un anno abbiamo cambiato formazione, rinnovando anche la sonorità complessiva. Questo, unito all'esperienza fatta con Eugene Chadbourne, ci ha stimolati molto dal punto di vista compositivo e creativo e ora siamo pronti a far uscire un disco nuovo».

Nessun commento:

Posta un commento